Alessandro Cinque

Freelance Photojournalist

ORPAILLAGE – À LA RECHERCHE D’OR PERDU

Regione di Kédougou, 2017. Diabougou, Bantakouta, SameKouta sono i tre principali luoghi dell’ Orpaillage. Siamo in Senegal a circa 700 chilometri dalla capitale, Dakar. E’ qui infatti, area di confine con Mali e Guinea, che ormai da oltre dieci anni ha preso piede la Caccia all’Oro: i ritmi di lavoro sono serratissimi, la sicurezza scarsamente esistente, i profitti per i minatori molto bassi. Gli uomini sono considerati come i componenti di una catena che porta soldi e ricchezza in Europa; la presenza dello stato è impercettibile. Da quando, durante gli scavi per la ricerca di carbone, sono stati scoperti significativi giacimenti d’oro, l’intera area ha subito forti stravolgimenti: a causa del notevole aumento della popolazione i villaggi hanno cambiato volto trasformandosi in baraccopoli gremite, le abitazioni tradizionali sono state sostituite da case in lamiera ed a volte in calce e mattoni, le strade sono affollate ed il rumore delle motociclette che incessantemente transitano si mescola al frastuono caotico che proviene dalla via principale, centro indiscusso della vita locale, su cui si affacciano negozi, ristoranti, meccanici e rivenditori di benzina. La condizioni igieniche sono pessime, gli odori acri e penetranti, resti di cibo, rifiuti, acqua sporca ostacolano il passaggio. Ogni mattina all’alba migliaia di uomini, di età e differente nazionalità, si dirigono dal villaggio al sito in cui gli scavi hanno sede. Si lavora dalle 8.00 alle 18.00 sotto il sole cocente, senza sosta, con mezzi e strumenti rudimentali. Le buche sono profonde fino a 50 metri, i tronchi di legno contribuiscono a rendere salde le pareti sulle quali piccole fessure irregolari raccontano la discesa degli uomini. Lo sforzo è grande, il rendimento scarso. Dentro, il caldo è soffocante, lo spazio angusto ed al buio si rimedia con piccole torce che i lavoratori legano in testa mentre con il piccone frantumano la roccia. Pesanti sacchi di pietra vengono tirati a fatica fuori dalle buche. I bambini fanno la spola tra il fiume ed il sito per portare l’acqua necessaria al funzionamento dei macchinari; le donne, in superficie, spezzano le pietre. Il tasso di mortalità è altissimo, soprattutto durante la stagione delle piogge, quando la terra è scivolosa, fangosa, poco resistente. Gli uomini che lavorano all’estrazione dell’oro provengono da diverse aree del Senegal e dagli stati confinanti: Mali, Guinea, Burkina Faso; dopo la loro morte è previsto il rimpatrio della salma. Il sistema di sicurezza è scarso ma vi sono degli uomini, incaricati dal capo del villaggio più vicino, che si occupano di risolvere le controversie, di far osservare regole basilari di rispetto reciproco affinché le operazioni procedano regolarmente, delle questioni burocratiche. Il rispetto per la morte è indiscusso ed un territorio quotidianamente chiassoso, in cui migliaia di persone si affaccendano instancabili e polverose, si trasforma in un silenzioso luogo, in cui rimangono soltanto le buche, vuote, che puntellano la terra rendendola scarna, inconsistente, pallida, simile al paesaggio lunare. Balza agli occhi la distesa di teli di plastica blu che ripara dal sole i minatori e consente ristoro. Attraverso i sacchi di yuta – appoggiati sulle spalle, nelle carriole, su motociclette o tre ruote -l e pietre vengono trasportate accanto al fiume: una grande quantità d’acqua e taniche di benzina sono indispensabili affinché funzionino i macchinari necessari a separare l’oro dalla fanghiglia. Acqua e terra scorrono su scivoli improvvisati in cui tappetini di plastica ruvida fungono da filtro per trattenere le pietruzze d’oro; ai piedi dei rudimentali scivoli si creano grandi pozze in cui qualcosa ancora luccica. Le donne accorrono numerose non appena il rombo dei motori che si accendono echeggia nell’aria, che da limpida si fa polverosa e piena di fumo. Arrivano di corsa e con grandi tegami raccolgono la fanghiglia scuotendola e dondolandola fino a quando sul fondo non giace che terra rossa mista a polvere dorata con la quale verranno modellati i gioielli: collane, orecchini e braccialetti. La scena osservata nel suo complesso appare solenne, ogni personaggio svolge un ruolo ben preciso, con cura e maestria, senza necessità di indicazioni. Alla fine della giornata ogni squadra di lavoratori vende l’oro raccolto a uomini che, imperscrutabili, attendono seduti su panche di legno, all’ombra di grandi teloni, di fianco alle motociclette parcheggiate poco lontano dal luogo in cui avviene l’estrazione. Un grammo d’oro viene venduto per circa 20.000 CFA, molto meno del valore che avrà in Europa. I lavoratori sporchi ed allegri si incamminano verso casa, portando in spalla ed in testa i loro strumenti. Attendono passaggi a bordo delle poche auto a disposizione, si salutano, si affollano sul sedile delle motociclette. Il ricavato di ogni giornata è basso, il lavoro è sfiancante, i rischi alti e le condizioni pessime ma il guadagno è comunque sufficiente per mantenere la famiglia, mandare i soldi a casa e gustare una buona cena. Le condizioni dei minatori sono migliori di quelle di molti contadini e la loro considerazione all’interno dei villaggi più alta; tutte valide motivazioni affinché la giornata successiva si ripeta con uguale carica ed energia. La lavorazione dell’oro grezzo avviene principalmente nella capitale, Dakar; da qui arriverà poi in Europa entrando a far parte del mercato globalizzato con cui ogni giorno ci interfacciamo.

TESTI: Chiara Sgreccia